Il Profeta
In questa foto c’è un uomo che ha sconfitto l’epidemia. Un uomo il cui coraggio e la cui risolutezza hanno salvato migliaia di vite. Un uomo che ha saputo governare la paura. E’ Alessandro VII Chigi (nel ritratto sullo sfondo).
Nel 1656 a Roma arrivò la peste, e l’allora Papa prese criticatissime misure draconiane. Tagliò i ponti con Napoli, zona rossa, fermò le attività ed eresse muri di cinta. “Prima dello sviluppo del morbo si arrivò ad incolpare Alessandro VII di artifizio politico nel supporre l’esistenza della peste, ostinatamente negata; così veniva corrisposto il benemerito e zelante Pontefice: tanto è ingiusto e ingrato il giudizio della moltitudine, quando abbandonata la ragione si fa trascinare dalla passione, anche a suo danno”. (Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. LII, 1841).
LA PRIMA EPIDEMIA DI PALAZZO CHIGI
Il ritratto campeggia nella biblioteca al quarto piano, defilato ma presente. D’Altronde Alessandro VII – al secolo Fabio Chigi – della grande sala libraria di Palazzo Chigi è grande ispiratore e “padrone”.
In questi locali, in cui oggi può capitare che si affaccino presidenti del Consiglio e ministri per un incontro riservato o una conferenza stampa, fino al 1923 era custodito il patrimonio librario (poi ceduto da Mussolini al Vaticano) del pontefice che regnò sulla Chiesa attorno alla metà del ‘600: 26mila tra codici, saggi storici, libri di narrativa, manuali ecclesiastici, raccolti e conservati da un Papa umanista e appassionato bibliofilo. Ai giorni nostri, però, Alessandro VII torna alla mente per un’altra storia, che ha a che fare con il vocabolario dell’attualità: contagi, paura, proteste, speranza, guarigioni. Nel 1656, un anno dopo l’elezione al Soglio Pontificio, il Papa esponente della ricca famiglia di banchieri senesi si trovò ad affrontare una drammatica epidemia di peste. Racconta Moroni, nel “Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica” (vol. LII, 1841):
“Mentre era in Castel Gandolfo Alessandro VII nel 1656, gli giunse l’infausta notizia che in Napoli era comparsa la peste bubbonica proveniente dalla Sardegna, onde subito si recò in Roma, per salvare possibilmente il proprio confinante stato”. Era la seconda grande ondata di peste del ‘600, divampata nel 1652 in Spagna e di porto in porto giunta a Roma.
Colto e risoluto, Alessandro VII fece nominare subito un commissario alla sanità di stretta fiducia: il fratello, cardinale Mario Chigi. Poi istituì una vera e propria ‘task force’ di alti prelati di esperienza e con ampi margini di manovra su diversi settori, dalla sanità al commercio. E chiuse i confini dello Stato Pontificio con il Regno di Napoli.
Ma non bastò. Viaggiando per mare, attraverso i bastimenti, il batterio della peste sbarcò a Civitavecchia e Nettuno. E da lì, a Roma. “Ciò che pose Roma in sommo spavento fu un pescatore napoletano morto nell’ospedale del ss. Salvatore al Laterano, con segni epidemici […] Il male si attaccò ad altre persone del Trastevere, onde si adoperarono le maggiori industrie per limitarne la diffusione e le conseguenze”. Tutta l’isola Tiberina fu destinata a lazzaretto.
Alessandro VII fece isolare i malati, trasferire la popolazione non contagiata e innalzare mura attorno a Trastevere, divenuta zona rossa. Costruì due lazzaretti alle porte della città per la quarantena cautelativa dei forestieri e diversi nuovi ospedali all’interno della città (oltre che reparti dedicati nelle strutture ospedaliere preesistenti). E pensò ai ristori: visto che i reclusi non avevano sostentamento, fece somministrare ogni giorno un indennizzo di 160 scudi.
Le regole per tutti i cittadini erano severissime: divieto di spostamento non motivato e di allontanamento da Roma, soprattutto per medici, chirurghi e farmacisti. Stretta sui commerci e sulle funzioni religiose. Sanificazioni coatte di case, negozi e merci, oltre che del denaro. E chi non denunciava il proprio o l’altrui contagio era sottoposto a pena capitale o a lavori forzati nei nosocomi (che in molti casi equivaleva a una condanna a morte).
Come reagì il popolo di fronte a tali misure draconiane? “Prima dello sviluppo del morbo – scrive Moroni – si arrivò ad incolpare Alessandro VII di artifizio politico nel supporre l’esistenza della peste, ostinatamente negata”.
Quando, grazie ai severi interventi, si arginò anche una seconda e una terza ondata nelle province dello Stato Pontificio, l’attitudine cambiò. Nonostante le proteste “i più esaltarono il Papa, che lungi dal nascondere la realtà del contagio, quasi tolse Roma dalle fauci di morte”.
La peste del 1656 spezzò a Roma 14 mila vite a fronte di centinaia di migliaia di morti in tutta Italia (240 mila solo a Napoli). Alla fine del pontificato il popolo romano chiese al Pontefice di poter erigere una statua in suo onore. Lui declinò con modestia, “e ringraziando dell’amorevole pensiero, significò non volere altro simulacro che quello il quale i romani gli conservassero ne’ loro cuori”. La storia finisce qua, spero che i successori di Papa Alessandro VII siano autorevoli almeno quanto lui. Vi lascio in compagnia di una bella compilation dal sapore ecclesiastico. Scaricate e… che la pace sia con voi 🙂
In questo articolo ha collaborato Jacopo Matano.