55° Dumping

L’educazione, un tempo, cominciava con l’insegnamento più sottovalutato e apparentemente inutile dell’universo infantile: imparare a stare seduti. Fermi. Immobili. Composti. E, incredibile a dirsi, provandone pure un certo gusto. Già da piccoli, ci insegnavano a stare prima ancora di fare. A stare nel silenzio, nell’attesa, nella noia perfino. Noi bambini di allora venivamo educati ad affinare i sensi. Usavamo l’olfatto per cogliere profumi che oggi sarebbero coperti da una spruzzata di deodorante. Imparavamo a guardare dove, all’apparenza, non c’era nulla da vedere — e guarda un po’, spesso qualcosa c’era davvero. E soprattutto, sapevamo ascoltare anche quando il mondo sembrava muto. Perché il silenzio, per noi, non era un’assenza, ma una presenza discreta, piena di piccoli suoni da scoprire: lo scricchiolio della cattedra, il ticchettio dell’orologio della casa dei miei, la matita del compagno che grattava il foglio. Un bambino che non sapeva stare fermo era considerato “sviluppato per metà”. E se proprio non riusciva a restare seduto, si diceva che aveva le formiche nei pantaloni — ma nessuno si affrettava a diagnosticare disturbi a tre lettere. Semmai, lo facevano sedere il doppio.
Erano tempi lenti. Tempi in cui l’impazienza non era ancora un valore di mercato. In cui aspettare era normale, e anzi, educativo. Si aspettava che il budino si raffreddasse. Che il sole calasse dietro i tetti. Che la radio smettesse di frusciare. Non c’era il tasto “salta intro”, né la connessione ultraveloce, né i tutorial da tre minuti per imparare il violino.
C’era solo un maestro — magari burbero, magari con i baffi — che ti diceva: “Aspetta.” E tu, senza fare troppe domande, aspettavi. Il mio si chiamava Renato Caiozzo. E se non eri preparato, ti educava a suon di bacchettate sulle mani. E vi posso assicurare che nessun genitore si è mai lamentato. Anzi: “Se mio figlio non ascolta, vacci giù pesante.” Questa era la linea educativa.
Eppure, tra una bacchettata e un tema su “La mia famiglia”, si nascondeva la chiave segreta dell’educazione: la pazienza. Oggi, che tutto è veloce e tutto è “adesso”, la pazienza è diventata una reliquia.
Ma per educare davvero, per crescere sul serio — anche da adulti — bisogna rispolverarla. Perché crescere non è come scaricare un’app. Non si fa in background mentre fai altro. Ci vuole tempo.
Serve stare. Ascoltare. Annusare l’aria. Aspettare che accada qualcosa anche dove sembra non succeda nulla. Ecco perché, oggi, voglio portarti lì. Proprio lì, in quella vecchia aula dove abbiamo imparato a stare. E da lì, iniziare questa sessione di dumping. Sì, dumping. Ma non inteso come svuotamento frenetico e caotico del cervello. No, no. Dumping, per me, vuol dire dare spazio. Vuol dire fare silenzio per sentire il rumore del drive. Fare ordine nel caos. Aspettare che ciò che è confuso diventi chiaro. E non avere paura del tempo che ci vuole. Quindi, oggi, ti invito a sederti — con te stesso. Non per obbedire, ma per accogliere. Non per essere bravo o brava, ma per essere presente. Con pazienza e con lentezza. Con la consapevolezza che non tutto si risolve in dieci minuti, e che va bene così. Prenditi tutto il tempo che ti serve. Scarica, carica e gioca, insegna anche ai tuoi figli il valore del tempo, anche se oggi non è facile, ma provaci, senza censura, senza giudizio, ma con cura, perché siamo qui non per correre ma per restare, e la pazienza non è solo una virtù: è una rivoluzione lenta, gentile, necessaria, e forse — in mezzo al frastuono e alla fretta — dovremmo imparare a coltivarla anche noi, con calma, e con un pizzico di ironia.

Per concludere auguro a tutto il gruppo una buona Pasqua. Grazie per tutti i vostri sorrisi, per le chiacchiere e per le emozioni che proviamo a comunicare attraverso le più improbabili metafore nerd, e per quell’entusiasmo che non muore mai — proprio come il nostro amico Commodore che, dopo 40 anni, è ancora vivo e vegeto.

RL


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