Resistenza estetica!

C’è chi a tavola discute di politica, chi degusta con l’aria da sommelier frustrato, e poi c’è lui: l’uomo che si macchia. Sempre. Inevitabilmente. Inesorabilmente. La sua camicia bianca non è mai bianca a lungo: è una tela in attesa del prossimo schizzo impressionista di ragù, vino o olio d’oliva. Lo riconosci subito: all’inizio del pranzo è elegante, sobrio, magari perfino affascinante. Alla fine, sembra uscito da una battaglia tra sugo e besciamella. Ma non è solo questione di macchie. È il modo in cui mangia. Vorace ma animalescamente sincero. Antipasto, primo, secondo, contorno, dolce, caffè, ammazzacaffè, magari un altro dolcetto “per bilanciare il salato”. E ogni volta giura che è a dieta. Con la bocca piena e il mento lucido di olio, dice con aria seria: “Da lunedì basta, lo giuro.”
Oppure il suo classico: “Oggi ho mangiato benissimo!” Ma lo sa. Sa che ha mentito a se stesso, alla bilancia, e al suo intestino. Perché prima o poi, arrivano i contraccolpi naturali di chi ha osato troppo. E anche lì, dirà: “Forse ho preso freddo con l’aria condizionata”.
A volte prova a salvarsi la faccia. Si presenta con un’aria ispirata, estrae con solennità un pacchettino di mandorle e lo posa sul tavolo come fosse un talismano. “Oggi mangio solo questo,” annuncia con tono da guru dell’alimentazione. Poi parte con la solita nenia: “E’ fonte di proteine, grassi buoni, perfette per l’intestino.” peccato che mezz’ora dopo lo trovi con la bocca piena di lasagne e la maglietta autografata dal ragù.
Ma vedi, tutto questo ha radici lontane. Dall’infanzia…
C’è chi lo sospettava da sempre, ma ora ne abbiamo la certezza: utilizzando vari travestimenti lui era il bambino dello spot della Cremeria. Sì, proprio lui. Anni ’80, citofoni analogici e pomeriggi caldi.
In scena un bambino che suona e chiede con voce squillante: “C’è Gigi?” Silenzio. Poi aggiunge con innocenza strategica: “E la cremeria?” Lui non cercava amici. Non cercava compagnia. Cercava il gelato.
E quando qualcuno, ingenuo, lo invitava a salire, lui entrava rapido, e con passo sicuro puntava dritto al freezer. Si piazzava sul divano, scoperchiava la vaschetta, e nel tempo record di 2 minuti e mezzo spazzava via l’intera scorta settimanale della famiglia. E mentre la panna si scioglieva, naturalmente lui si imbrattava con grazia.
Una scena epica, ripetuta in tutte le case dei suoi amici. La sua relazione con la macchia è quindi antica, profonda, quasi spirituale.


E in fondo, la macchia è come un vecchio computer: è imperfetta, fragile, ma affascinante. Fa parte della memoria, lascia tracce, racconta storie. Un Commodore 64 che si avvia con uno strano rumore, una maglietta che porta il segno di una macchia di sugo: entrambi ti parlano di un tempo autentico, vissuto, in cui ogni errore era poesia e ogni sbavatura una firma d’autore.
In un mondo ossessionato dalla perfezione, insomma: la macchia è resistenza estetica.
È un grido silenzioso contro il culto della camicia immacolata. Il nostro amico non si sporca. Lui si firma.
Ogni volta un autoritratto diverso: “Rosso Barbera su cotone 100%”, “Variazione in pesto maggiore”, “Il dramma della carbonara (senza salvietta)”.
Le soluzioni ci sarebbero: mangiare nudo (non consigliabile nei ristoranti, anche perché non è un bel vedere), usare un bavaglino da adulti (provato, la macchia ha colpito da dietro), oppure limitarsi a cibi secchi (e comunque la mollica lascia l’alone). La verità è che la macchia non si evita: si abbraccia.
Questo articolo è dedicato a lui, al nostro caro amico di cui non faremo mai ne il nome ne il cognome, possiamo solo dire la sua iniziale… una P.
Sì, proprio lui. Lo sappiamo tutti. Continua così P!! Noi, comunque, ti vogliamo sempre bene.

RL


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